Interpretando Tavcar…

Leggo e rileggo “Che razza di basket”, il bellissimo pezzo pubblicato il 27 agosto sul Blog di Sergio Tavcar, e un’eco di considerazioni martella il mio cervello da qualche ora. Penso a Djordjevic (e a tutta la schiera di allenatori concordi con lui), che prega i giovani di avere pazienza e di non affrettarsi ad entrare nella NBA troppo presto rispetto alla loro fisiologica crescita fisica, tecnica e mentale. Ma ricordo con amarezza anche una frase citata da Dacio Bianchi durante la All In Sport Summer League di Trieste, splendidamente ficcante e sempre nuova: “Si allena, invece di insegnare”.

Difficile non provare una certa qual rabbia sportiva quando – contemporaneamente alla fine di cicli storici (Argentina, Francia, Lituania, etc.) – si assiste ad un predominio del Team U.S.A. principalmente supportato dalla supremazia meramente fisica sotto canestro e da qualche rara giocata di altissimo livello (Irving e Durant). Dall’altra parte? Una resistenza talvolta eroica ma molto fiacca a questo tsunami cestistico di chili e muscoli, conseguenza – appunto – di una mancanza in termini di “conoscenza” della pallacanestro di molti atleti visti sul parquet.

Cosa abbiamo smesso di insegnare? Tavcar indica come principale deficienza delle squadre di indole “europea” la poca precisione al tiro di titolari e comprimari, ma tornerei sulla sua definizione di basket: “uno sport per gente intelligente”. Ecco, questo non si insegna più. Questo è il tassello mancante, a mio modo di vedere ancor più grave della poca precisione al tiro (qualità allenabile anche per il più “stolto” dei giocatori). Se mancano le letture intelligenti, le scelte di tiro, di passaggio, così come le scelte difensive saranno imprecise, goffe e poco efficaci: quella scaltrezza tipica di un Petrovic, capace di segnare 112 punti ma capace anche di farsi premiare come miglior giocatore di una partita concentrandosi principalmente sul passaggio e sul coinvolgimento dei compagni. Quell’acume che fa spendere meno energie, che fa innervosire gli avversari, che permette un aiuto più rapido e produttivo perché si sa esattamente che cosa fare in quella determinata situazione.

Perché accade questo? Se è vero che si vince segnando più canestri del nostro avversario, è altrettanto vero che il “come” può stravolgere il nostro approccio a questo sport: ormai fagocitati dall’egocentrismo (tiro più degli altri, a scapito di scelte più accorte) o dal “Westbrookismo/LeBronismo” (mi scaravento a canestro alla cieca, chi mi fermerà?), il giovane prospetto investe sudore e fatica nella cura del corpo e nella rapidità d’esecuzione. Poco, pochissimo tempo, verrà investito nelle letture di gioco, nell’analisi “live” di situazioni particolari, di mismatch, di attacchi alla zona e quant’altro. Ormai abbandonati a se stessi, ci si rinchiude dentro l’ennesima isolation o ci si affida ai blocchi come panacea di tutti i mali.

La ricetta per non affogare nel pessimismo? Il titanismo anticonformista di quegli allenatori (e ce ne sono ancora) che sui fondamentali hanno costruito la carriera di quelle leggende del basket europeo che non solo hanno sfidato Golia, ma lo hanno anche sconfitto.