Stefanel, ascesa e declino

I ruggenti anni 80, la multinazionale «tascabile», il basket e la vendetta di Trieste.

Fonte: Il Corriere del Veneto, a cura di Alessandro Zuin

Comunque vada a finire la partita, anche con il migliore dei punteggi, un risultato appare già delineato: Giuseppe Stefanel, il paròn, perderà il controllo della creatura aziendale che, per suo volere, porta nell’insegna il cognome di famiglia (prima era un più anonimo Maglificio Piave, certo non adatto a farci un brand della moda). Si può ben dire, perciò, che il sior Bepi, nato a Ponte di Piave 64 anni fa sotto il segno della Vergine – preciso, ingegnoso e tagliato su misura per il lavoro, per chi crede a queste cose – in azienda ci ha messo il nome, la faccia e anche mi bel po’ di denaro: calcoli molto attendibili attestano che, nell’arco degli ultimi 9 anni – quelli caratterizzati da ricorrenti difficoltà finanziarie e di mercato – l’azionista di riferimento ha pompato nelle casse della società quasi 170 milioni di euro, tra operazioni di aumento del capitale sociale e soldi freschi ricavati dalle dismissioni (quella di Nuance nel 2011,135 milioni incassati, è di gran lunga la più importante).

La sua parabola coincide con la grande generazione degli imprenditori veneti del tessile e dell’abbigliamento che hanno fatto successo identificando famiglia e azienda: Benetton, Stefanel, Coin. E prima ancora c’erano stati i Marzotto: tutti cognomi che si sono trasfigurati in marchio commerciale, dilagando per il mondo. Gli anni ruggenti sono stati gli Ottanta del secolo scorso: il decennio si avvia con l’apertura del primo negozio a marchio Stefanel, a Siena, seguito due anni dopo dalla storica inaugurazione dello store di Parigi, la città della moda per eccellenza. Stefanel diventa in breve una multinazionale tascabile della maglieria, i suoi negozi nel mondo arrivano a superare quota cinquecento, la società si quota in Borsa nel 1987 e procede a diverse acquisizioni (Interf ashion e la già citata Nuance) e alla diversificazione in altri settori. Con Benetton, conterraneo e concorrente diretto nella terra dei maglioni, si sviluppa una rivalità a distanza che trova la sua valvola di sfogo nell’abbinamento con la pallacanestro.

Stefanel parte piano, sponsorizzando l’Hesperia di Treviso, poi fa il botto a Trieste, dove fa impazzire di passione una piazza storica del basket italiano portandola in un balzo dalla B alla serie A. Quella Stefanel è una squadra immortale per gli appassionati: la allenava Boscia Tanjevic, ci giocavano un giovanissimo Dejan Bodiroga e un highlander ancora intimidatorio come Dino Meneghin. Quando Trieste e Treviso si incrociano sul parquet, naturalmente è il «derby dei maglioni». Siamo nel 1994, il grande salto è dietro l’angolo: Bepi Stefanel litiga di brutto con il Comune di Trieste per il mancato ampliamento del palasport, si sente poco sostenuto e molla tutto, trasferendosi armi, bagagli e giocatori all’Olimpia Milano, il Gotha della pallacanestro tricolore. La Stefanel milanese vince uno scudetto storico, il venticinquesimo (Benetton, a Treviso, ne ha vinti cinque…) ma il «tradimento» triestino resterà una ferita mai completamente rimarginata. E infatti…

Infatti, quasi vent’anni più tardi (siamo nel 2013), succede un fatto che, visto dalla parte di Trieste, pareggia i conti. Giancarlo Galan, che non è più presidente della Regione Veneto né ministro della Repubblica ma conta ancora parecchio nel centrodestra berlusconiano (lo scandalo del Mose arriverà un anno più tardi), lancia l’amico imprenditore Bepi Stefanel nell’agone politico, proponendolo autorevolmente per un seggio al Senato con il Pdl. La collocazione naturale sarebbe in Veneto ma, poiché qui la concorrenza interna è fortissima, Stefanel viene dirottato come potenziale capolista in Friuli Venezia Giulia. La candidatura sopravvive lo spazio di tre giorni: il Pdl locale insorge, al grido di «Trieste non dimentica» (l’offesa del basket) e, anche se il diretto interessato si affretta a smentire qualsiasi coinvolgimento, Stefanel viene impallinato prima ancora di correre. Fine prematura di una promettente carriera politica.

Tornando al business, Stefanel attende ancora un cavaliere bianco che porti risorse fresche per puntellare il patrimonio della società, oberato da un debito di 87,4 milioni di euro verso le banche. Ma il punto vero, probabilmente, è anche un altro: schiacciato in basso, nella fascia di primo prezzo, da concorrenti di dimensioni inarrivabili come H&M e Zara, il marchio Stefanel sta affannosamente cercando un riposizionamento nel settore più alto di mercato, ma gli capita di doverlo fare in un momento in cui tutte le grandi catene dell’abbigliamento stanno patendo l’onda di riflusso della crisi dei consumi. Che non è soltanto economica, ma di modello: la gente compra sempre più on-line, ed è disposta a spendere meno e in modo mirato. Ci vuole un fisico bestiale per resistere all’urto.