Federico Massone (Jesi): “All’Aurora per crescere lontano da casa”

Due chiacchiere con il giovane playmaker cresciuto alla Pallacanestro Biella e, da quest'anno, protagonista con il team marchigiano.

Federico Massone in palleggio con la maglia di Biella.

Ho conosciuto Federico Massone l’anno scorso, in occasione delle finali nazionali under 18 giocate a Pordenone. Più che conosciuto sarebbe più corretto dire apprezzato, grazie alla leadership fatta di passaggi illuminanti ai compagni, sempre a testa alta, durante le telecronache delle partite della Banca Sella Biella allenata da quel santone di Federico Danna, perennemente sospeso tra la sgridata ed il rinforzo positivo ai suoi ragazzi, in una perfetta sintesi didattica che solo i più grandi sono in grado di fare.

Potrà forse sembrare strano ma io e Federico non ci siamo mai conosciuti, dico di persona. Evidentemente, non è sempre necessario stringersi la mano per poter entrare in sintonia, se sai che dall’altra parte c’è chi ti stima per quello che hai fatto in campo, mentre qualcuno lo racconta ad un microfono. E’ nato così il nostro contatto che è durato per tutto l’anno grazie ai social, l’ho seguito nel suo primo anno nel roster della prima squadra, nel suo cammino giovanile e nella splendida avventura egiziana con la Nazionale Under 19 di coach Capobianco. Abbastanza per decidere di farci due parole, in un anno importante che ha portato Federico a Jesi, nella sua prima esperienza senior lontano da Biella.

Ciao Federico. Dopo le ferie hai già ripreso gli allenamenti, con una grossa novità… non più a Biella ma nelle Marche. Cosa ti aspetti dal primo anno lontano da casa in una nuova società e come è nata la decisione di firmare per la Termoforgia Jesi?
“E’ stata una decisione concordata con Biella, ponderata e fatta per darmi la possibilità di avere uno spazio che mi consenta di crescere, dopo un anno in cui in prima squadra non ne ho avuto molto. L’Aurora Jesi ha dimostrato interesse fin dalla fine del campionato nei miei confronti, la società e coach Cagnazzo vogliono coinvolgermi direttamente nel progetto tecnico e questa fiducia mi ha fatto accettare la loro proposta. Sarò il primo cambio del play titolare, Ken Brown, e metterò le mie capacità al servizio della squadra. Sono consapevole di avere una grande opportunità e voglio sfruttarla con impegno e dedizione”.

Facciamo un passo indietro. Sei reduce dall’esperienza con la Nazionale Under 19 in Egitto. Cosa significa indossare la maglia azzurra? Quali emozioni trasmette?
“E’ un onore ed una grande emozione al tempo stesso. Ho iniziato ad indossarla lo scorso anno, anche se poi non ho partecipato agli Europei. Quest’anno ho avuto la fortuna di far parte della spedizione ai Mondiali, in un Paese così speciale come l’Egitto e con la possibilità di giocare contro coetanei di grande valore e provenienti da realtà cestistiche diverse. Sono stati dieci giorni indimenticabili, avere la scritta “Italia” sul petto, condividere il campo e la vita di squadra con compagni che poi sono anche amici, con uno staff tecnico e dirigenziale che ci ha sempre messo nelle migliori condizioni. Una grande emozione ed una bellissima esperienza, finora la più bella della mia carriera”.

Come definiresti con tre parole coach Capobianco?
“Direi ambizioso, determinato e motivatore. Ambizioso perché ha sempre puntato in alto, dopo essere arrivati tra le prime otto ci ha trasmesso la voglia di salire ancora, alzando l’asticella in un percorso dove non dovevano esistere punti di arrivo ma di partenza. Determinato perché ha una grinta incredibile ed è contagioso in questo, conosce i giocatori e li coinvolge in modo semplice e diretto verso l’obiettivo. E’ un grande motivatore che riesce a trasmettere ad ognuno dei suoi ragazzi fiducia e senso di appartenenza, nei prepartita ci ha sempre detto che eravamo i migliori giocatori che lui potesse allenare e questa carica è fondamentale per rendere sul parquet, specie in competizioni come i Mondiali dove giochi con compagni con cui ti sei allenato poco e dove non c’è molto tempo per provare soluzioni tattiche”.

Continuiamo ad andare all’indietro, partendo proprio dall’inizio. Quando inizia la tua passione per il basket? Tutto iniziò al Rouge et Noir, società della tua Aosta…
“Qui andiamo tanto indietro! Ho iniziato ad Aosta, dove sono nato, a 5 anni. Mio papà giocava e tra i tanti sport provati, una volta presa in mano la palla da basket non ho più smesso. Ero bambino che sognavo di arrivare a giocare in serie A e ogni volta che ci penso, ora che ci sto muovendo i primi passi, sorrido orgoglioso perché tutti gli sforzi fatti finora sono serviti e ho intenzione di farne tanti altri”.

Dopo Aosta ti traferisci a Biella per essere allenato da Federico Danna, un vero maestro di pallacanestro, e non solo. Quali sono le sue migliori doti?
“Federico ne ha tante di doti. In primis, lui si preoccupa di allenare la persona prima ancora che il giocatore. Ha cura di te come ragazzo sotto tutti gli aspetti, da quello scolastico a quello comportamentale, oltre ad essere un eccellente allenatore. Se hai la fortuna di essere un suo giocatore, sai di avere sempre al tuo fianco una persona che ti segue e ti forma a 360 gradi, con disciplina, competenza e affetto. Non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi insegnato che per diventare un giocatore di basket non basta saper fare canestro, passare e difendere ma serve molto altro, e non lo si impara solo in palestra. Sono i tre anni di lavoro con Federico che mi hanno consentito di far parte della Nazionale e di essere chiamato a Jesi. In secondo luogo, è un allenatore che insegna la tecnica ed i fondamentali, non ho ricordi di decine di schemi da seguire e relativi tatticismi ma di letture e interpretazioni che lui affida ai propri giocatori. Ci sono delle regole di squadra che tutti devono sapere, su questo è molto esigente, ma poi sei tu che decidi cosa fare in campo. La vittoria non è l’obiettivo da raggiungere ad ogni costo ma con le sue squadre spesso ci si arriva perché ti insegna a fare la cosa giusta al momento giusto. Come dire, ti insegna ad usare gli strumenti per risolvere un problema, non ti dà la soluzione”.

Da un maestro ad un altro grande del basket italiano. Ricordo di aver letto che fu Gianni Asti a convincerti di andare in America per migliorare i fondamentali…
“E’ vero e successe durante il Camp “Campioni crescono” di Sestriere, vi conobbi Gianni e per due estati consecutive mi portò in America. Avevo 14 anni e giocavo nel Rouge et Noir di Aosta, non facevo nemmeno parte della Rappresentativa regionale, un perfetto sconosciuto. Gianni è stato il primo a credere in me, a vedere qualità che fino a quel momento nessuno avevo intravisto e a consigliarmi di andare a Biella, proprio dal suo amico Danna. Lo considero il mio padre cestistico, mi ha insegnato tantissime cose e lo sento ancora oggi con grande piacere”.

Hai esordito in A2 quest’anno, dopo tanti anni di giovanili ai massimi livelli, dalle finali nazionali alle nazionali giovanili. Cosa cambia quando si gioca nel “basket dei grandi”?
“Cambia soprattutto l’aspetto tattico, si cura ogni minimo dettaglio e si prepara la partita in settimana anche sulla base delle caratteristiche degli avversari. Sarà l’aspetto sul quale dovrò lavorare di più, al playmaker viene richiesto proprio questo e dovrò imparare in fretta a fare le chiamate giuste nel minor tempo possibile, coinvolgendo il giocatore adatto per quella determinata situazione. Ne ho di lavoro…”

Chiudi gli occhi e prova a pensare a come ti piacerebbe vederti tra 5 anni.
“Mi piacerebbe che succedesse, a parti invertite, quello che succedeva a me quando ero piccolo, vedere dal basso verso l’alto i giocatori di serie A e sognare di diventare come loro, imitandone le gesta all’allenamento successivo. Ecco, mi piacerebbe poter essere dall’altra parte, con tanti bambini cui dare un “5” a fine partita. Non importa se sarà Eurolega, Serie A o A2, certo che mi piacerebbe arrivare a giocare più in alto possibile, ma ciò che conta è che, indipendentemente dal livello a cui meriterò di giocare, guardandomi indietro possa dire di aver fatto il massimo, il mio massimo, senza avere rimpianti”.

Quali sono le tue passioni oltre al basket?
“Non è una passione, nel senso comune del termine, ma è la scuola. Finora ho dovuto farla coesistere con gli impegni sportivi, negli anni da under ci sono riuscito e mi piacerebbe poter continuare a studiare, consapevole del fatto che una base di conoscenze sia un piedistallo stabile per uno sportivo, nella cui vita infortuni e obiettivi non raggiunti vanno messi in conto. Credo anche che tenere il cervello allenato attraverso lo studio sia utile per essere rapido ed efficace anche sul parquet, ti mantiene brillante e quindi meglio fare entrambe le cose, studiare e giocare, visto che ci sono solo vantaggi. Ho terminato il Liceo classico e continuerò gli studi, ho intenzione di iscrivermi alla facoltà di Scienze delle Comunicazioni”.

 

 

Simone Pizzioli