Pallacanestro Trieste, una passione… intimista, di Raffaele Baldini

Prendo spunto da un esempio rimbalzato agli onori delle cronache con troppa enfasi: le dichiarazioni di Michele Ruzzier da neo giocatore della Fortitudo Bologna. La sua confessata fede per l’aquila sin da bambino ha scosso la tifoseria giuliana, sentita in parte tradita da un loro “figlio”. Posto che l’onestà e la passione sportiva non dovrebbero essere giudicate, la questione può essere allargata nella storia cestistica cittadina.

Di questi tempi parlare di integralismo religioso è inopportuno, ma è quanto di più assimilabile al mio personale approccio alla storia della pallacanestro triestina. Senza alcun spirito campanilistico, ho sempre considerato Trieste la vera Basket-city, per il pionierismo ma anche per l’elevata concentrazione di “baskettari” per abitante; una culla cestistica di grande spessore, competente e appassionata, troppo spesso “cameriera” di ricchi e viziati padroni. Federico Buffa ne esalta le virtù, Sergio Tavcar rincara la dose indicandola quale capitale della pallacanestro italiana. Ma allora perché, mi sono chiesto, non riesce ad avere l’appeal di altre piazze?

Negli anni tanti, troppi grandi giocatori hanno visto strutturare il proprio valore umano e sportivo all’ombra di San Giusto, senza riconoscere la potestà. Forse le radici di questa emarginazione sta nella delocalizzazione geografica, o forse nella “scontrosa grazia”, o forse perché la pallacanestro è stata sempre vista in versione… intimista. Si, Trieste non usa artifizi per sbandierare la propria nobiltà, la tradizione è possessività, non subisce l’onda mediatica e men che meno vive di slanci economici. Come in tutte le cose a cui si tiene veramente, c’è diffidenza per chi indossa una gloriosa canotta per la prima volta, poi una perturbata passione riversata ai protagonisti che esaltano il gioco, ed infine un fatalismo tipico triestino nel veder partire senza riconoscenza beniamini di un momento.

Solo chi ha un grado di sensibilità e di cultura sopra la media può codificare ed aprire le porte dell’immortalità sportiva. Ed è giusto che sia pochi, forse pochissimi a poterlo fare, e sono gli stessi che poi in città resteranno indimenticati; se faccio due nomi a caso, quello di Boscia Tanjevic e di Ivo Maric, capite che parliamo di uomini prima che di allenatori o giocatori, di personaggi che non solo consumano un contratto professionale, bensì ricercatori che assorbono la cultura locale.

E non è nemmeno un caso che in giro per l’Italia, soprattutto grandi nomi con qualche capello grigio (o qualche capello in meno) e con un bagaglio culturale trasversalmente riconosciuto (vedi Valerio Bianchini e Dan Peterson), riconoscano questa virtù…carbonara, della terra giuliana.

Per tutti gli altri, per tutta l’infinita schiera di giocatori ed allenatori di passaggio, l’opulenta tavola imbandita di piazze ambite sarà sempre più saziante di un introspettivo viaggio nella storia della pallacanestro.

Raffaele Baldini (www.cinquealto.com)