“L’Arancia…Marcia”: la malattia del basket in Italia (parte 1)

Riflessioni, proposte e considerazioni legate a quella che è attualmente la realtà cestistica italiana, ai tempi del Coronavirus.

Questa “pausa forzata” spinge tanti a trovare contenuti alternativi, nuovi; alcuni, invece, hanno il tempo di fermarsi a riflettere. Si, riflettere: perché molto spesso la nostra quotidianità è talmente “travolgente” che noi, per rimanere dietro a tutto, siamo immersi in un vortice di compiti, lavori e responsabilità che non ci permettono spesso di fermarci, respirare e guardare determinate situazioni con un occhio “riposato” ed obiettivo. Ed ecco il perché di questa rubrica: una riflessione, che magari può dare qualche spunto ulteriore ai piani alti della nostra pallacanestro.

MOVIMENTO INFRUTTUOSO A SPICCHI: LA CRISI COME OPPORTUNITA’

A seguito del comunicato della FIP dello scorso 7 aprile, la stagione 2019-20 è ufficialmente conclusa. Ora il basket è ad un bivio: iniziare il campionato con le stesse modalità – dunque gli stessi problemi degli ultimi anni – o creare una sorta di “anno zero” da cui rifondare il movimento. Partiamo dal presupposto che la fine delle ostilità è stata spinta dalle società che però, come sottolinea il comunicato stampa della FIP, mostravano la volontà di “demandare ogni e qualsivoglia decisione in merito alla chiusura anticipata della stagione” appunto alla Federazione stessa.

La necessità di questo escamotage è facile da comprendere: nel caso di interruzione volontaria da parte della Lega, i tesserati – molti peraltro già da tempo all’estero – possono rivalersi sulle società per i prevedibili ed inevitabili mancati pagamenti; nel caso in cui sia il Governo a sospendere i campionati, esse non avrebbero responsabilità dirette nei mancati emolumenti dei propri tesserati. Il termine “inevitabile” deriva dalle ingenti perdite di botteghino e sponsor verificatesi per l’interruzione forzata, non considerando il corrispettivo da diritti televisivi che è praticamente nullo. Proprio da qui è interessante partire per analizzare il sistema il basket nostrano: oltre ai trascurabili introiti di merchandising, le due uniche fonti di income (entrate, ndr.) dei club sono sponsor e ticketing. Come in tutti i settori economici, anche lo sport è in piena crisi da lockdown, con la differenza che questa contingenza può acuire e distruggere un sistema già in crisi nera. Le soluzioni infine sono due: ripartire da zero avendone un valido motivo che possa scontentare meno del solito oppure piangere all’italiana con gli enti pubblici chiedendo crediti utili a gettare sotto il tappeto le ingenti quantità di polvere che si accumulano sui parquet di (quasi) tutt’Italia.  

SPREMERE OLIO DALLE PIETRE: LE ENTRATE DEL BASKET ITALIANO

Guardando lo sport più ricco, seppur molto lontano sia in termini di visibilità che di cash flow, cioè il calcio, le maggiori entrate dei club derivano da diritti televisivi e cartellini dei giocatori: mancando questi due aspetti, le società crollerebbero come castelli di sabbia. Nella massima serie della Pallacanestro italiana, le cui cifre generali sono molto basse tanto da essere mediamente paragonabili a quella di una Serie C di calcio, addirittura non sono presenti queste possibili voci di attivo a bilancio. Come può reggere dunque il sistema? Ad oggi le società stanno in piedi grazie al mecenatismo, formula che caratterizzava anche il calcio anni 80 e inizio 90 ma ampiamente superato vista la sua caratteristica “a perdere”. Se inoltre si consideri che la visibilità nel basket è molto inferiore a quella del calcio, ne deriva che anche il mecenatismo lo sia in proporzione. Altro aspetto da considerare per evidenziare quanto questa forma di finanziamento sia fallimentare è dettata dall’instabilità del tutto: nel momento in cui il padre-padrone si stufa di buttare letteralmente il proprio danaro, l’intera società sparisce, con buona pace di tifosi e tanti lavoratori del settore.

È dunque possibile introdurre questi due metodi di finanziamento per rendere il basket più sostenibile? La risposta è no. Perlomeno ora. Vediamo il perché.

1 – IL VALORE DEL CARTELLINO

La questione cartellini è impossibile oggi da proporre per una motivazione economica di base: molta offerta, poca domanda. La molta offerta è soprattutto legata alle migliaia di giocatori americani che ogni anno non accedono al Draft NBA o G-League e si riversano dunque sui campionati del resto del mondo. Con tutta quella offerta decade a catena anche il ruolo dei settori giovanili.

In primis, perché l’interesse nell’investire tempo e anche soldi su un giovane promettente con l’impossibilità di poi lucrarne sulla cessione del cartellino non è fruttifero per un club: appena il ragazzo diventa troppo forte per quella società, ha la facoltà di mollare tutto e andarsene con tragiche conseguenze per il club, che rimane al palo senza un ottimo atleta e senza alcun indennizzo economico per la sua assenza (se non trascurabili cifre di buyout).

In secondo luogo, perché in termini di risultati è molto più comodo prendere a titolo gratuito un americano già formato a cui elargire soltanto il prezzo dello stipendio, che puntare su un giovane italiano homemade. L’ulteriore conseguenza del non investire nei settori giovanili é la mancanza di istruttori preparati e competenti a favore di dopolavoristi semivolontari che non hanno le competenze per formare giovani talenti che possono rimpolpare i roster delle nostre nazionali.

L’aspetto più singolare risulta la sorpresa degli addetti ai lavori nel notare la quasi totale assenza di giocatori di talento italiani, quando l’impronta del sistema faccia di tutto per non crearne. Ad ogni modo, per i motivi appena elencati le società non sono da biasimare, si adeguano al mercato come ogni attività che alla chiusura del bilancio vuole arrivare per lo meno alla pari.

2 – INTROITI DA DIRITTI TV

Per i diritti televisivi è ancora più complicato. Con l’ultimo accordo con Eurosport in scadenza a giugno 2020, si è deciso di eseguire una sorta di cambio merce: l’emittente produceva le partite alla massima qualità e la Lega vi cedeva quasi gratuitamente i diritti televisivi. In sostanza si trattava di una sorta di pubblicità per il movimento, che però non ha avuto gli effetti desiderati. Ora la Lega si trova ad un bivio se continuare con questa strada o se autoprodursi le partite per poi rivenderle al miglior offerente. Quest’ultima ipotesi però è molto complessa: la produzione dei match costa molto, la qualità deve essere univoca per tutte le partite e dunque affidarla alle singole società come accade in A2 risulta impossibile, in termini di mezzi e servizi; aggiungiamoci il “carico” che non si riesca a prevedere se tutto questo impegno abbia poi un riscontro in termini economici e la problematica si complica ancora di più. Il nocciolo della questione è il valore del prodotto che si vende: in questo momento purtroppo il basket non ha appeal mediatico.

Quindi che fare? Le soluzioni sono molte, ma anche nessuna. Partono tutte dal concetto di cambiamento e trasformazione. Un’idea può essere quella di divenire delle media company, quale evento in una media città può radunare migliaia di persone ogni due settimane? In realtà questo è il motivo per cui ci sono le sponsorizzazioni. Il punto è che nell’analisi costi/benefici le sponsorizzazioni di questo genere di eventi possono essere redditizie sui 5/10/20 mila euro…arrivaci a 5 milioni di euro (budget medio-basso di una Serie A, ndr) a suon di queste cifre!

Per cui ciò che possono fare le medie società per creare valore è diventare vere e proprie agenzie di comunicazione: ogni società ha un addetto marketing/vendita (a volte tutt’uno), ufficio stampa/eventi (vedi sopra), grafico e foto/videomaker. In più ha anche dei giocatori come testimonial, mix perfetto per fare comunicazione dentro alla società ma anche fuori e diventare agenzie di comunicazione a 360° oltre che realtà da sponsorizzare. Oltre ciò occorre innanzitutto generale interesse attorno al gioco che rimarrà, in qualsiasi caso, il core business aziendale.

Renato Will Fiorimino

(CONTINUA)

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